Cominciamo senza ipocrisie: l’obsolescenza dell’anziano è un fatto oggettivo. Certificato bio.
Non una colpa, non un’ingiustizia cosmica, ma un dato strutturale. In un mondo che cambia in fretta, chi ha imparato lentamente resta indietro. L’esperienza, un tempo capitale essenziale, oggi perde valore d’uso. Non perché sia falsa, ma perché arriva tardi, parla un’altra lingua, risponde a domande che non vengono più poste.
Oggi quel capitale é svalutato. Il mondo corre su binari di immediatezza e l’anziano, per definizione, procede a passo umano. "Lento pede", come si diceva ai suoi (bei) tempi. Non parla il dialetto del virtuale, inciampa tra password e app, e guarda l’AI con lo stesso sospetto con cui un contadino guardava il primo trattore: utile, sì, ma dove finisce il senso del lavoro?
Così l’esperienza, che prima era bussola, viene trattata come una vecchia mappa: affascinante, ma superata.
Nel lontano passato il vecchio era indispensabile. Non per prestigio morale, ma per necessità. Era deposito di conoscenza vitale: sapeva come sopravvivere, come curare, come riparare, come gestire un gruppo, che fosse famiglia o tribù o una comunità. Stava in casa perché la casa aveva bisogno di lui. Il suo sapere non era decorativo: serviva. E quando qualcosa serve, nessuno la chiama obsoleta.
Oggi quella funzione è venuta meno. La conoscenza è esternalizzata, automatizzata, continuamente aggiornata.
Il sapere dell’anziano non solo appare superato, ma talvolta viene percepito come dannoso: rallenta, frena, introduce prudenza dove si chiede slancio. “Così si è sempre fatto” non è più saggezza, ma sospetto. Il vecchio non è più maestro: è intralcio.
Accertato questo dato, la questione diventa politica e civile, non sentimentale.
Che cosa fa una società con una fascia crescente di persone oggettivamente obsolete dal punto di vista produttivo, tecnologico, organizzativo, e quindi tendenzialmente a-sociali?
Le opzioni sono poche, e alcune inquietanti. La più brutale è la rimozione: anticipata o mascherata, esplicita o amministrativa. L’eutanasia di massa a età fissa è l’incubo che nasce quando il linguaggio dei costi sostituisce definitivamente quello dei valori.
L’alternativa è meno efficiente, ma più civile: il modello museale. Se il vecchio non serve più a far funzionare il presente, serve a spiegare come il presente è diventato possibile. Come certi strumenti antichi, non li usiamo più, ma li conserviamo perché senza di essi non saremmo qui, come il raschiatoio di ossidiana in una vetrinetta male illuminata, con una polverosa etichetta.
Il museo non è un parcheggio: è un riconoscimento. Dice che qualcosa ha esaurito la funzione pratica, ma non il significato.
Questo implica una trasformazione culturale non banale. L’anziano non va celebrato come falso giovane né costretto a simulare utilità che non ha più.
Va riconosciuto per ciò che è: memoria incarnata.
Non guida il cambiamento, ma lo rende intelligibile. Non accelera, ma mette in prospettiva. È un freno, sì, ma anche i freni sono dispositivi di sicurezza.
Naturalmente il museo costa. Anche i reperti costano. Anche la conservazione costa. Ma una civiltà che accetta di sostenere ciò che non produce dimostra di non essere riducibile a un’azienda. La linea di confine è sottile ma decisiva: o si conserva ciò che non serve più, o si elimina ciò che non rende.
Alla fine, il punto non è se il vecchio sia obsoleto. Lo è.
Il punto è come una società possa gestire la propria obsolescenza interna. Perché il modo in cui tratta i suoi anziani non dice nulla sul passato, ma tutto sul futuro che intende darsi.
Sì, il "vecchio" è obsoleto.
Ma tra l’eutanasia a calendario e il museo c’è la differenza che passa tra barbarie e civiltà:
la prima elimina ciò che non serve più, la seconda conserva ciò senza cui non sarebbe mai esistita.





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