Koulibaly, il razzismo e un provvedimento “all’italiana”

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Forse basterebbe il titolo a far comprendere il tono provocatorio di questo pezzo, in cui tenterò di utilizzare il (presunto) trattamento degli arbitri nei confronti di Koulibaly come esempio di un modo di “risolvere” i problemi che poi di risolutivo ha ben poco.

Partiamo dalla premessa. La mia impressione, che sa tanto di provocazione, è che da quel famoso Inter-Napoli in cui il difensore dei partenopei ha ricevuto dei buu razzisti che, a detta del suo allenatore, l’hanno innervosito fino a portarlo a farsi espellere nel finale, gli arbitri italiani tendano a “preservarlo”, incondizionatamente o meno. Una provocazione appunto, basata però su due episodi piuttosto chiari a mio avviso, ovvero il mancato secondo giallo nella gara di Coppa Italia contro il Milan e quello probabilmente più grave, perché eclatante nell’esecuzione del fallo, non dato domenica contro la Juventus. Una semplice coincidenza? Io, come avrete già capito, non credo lo sia. Mi preme però sottolineare un altro punto che in un certo senso individuo come causa scatenante del dubbio che si è instillato in me. Mi riferisco ai “provvedimenti” inconsistenti e assolutamente di facciata presi proprio in seguito all’episodio citato all’inizio di questo testo. Due partite a porte chiuse e un’ulteriore con un settore specifico dello stadio senza spettatori, questa la punizione decisa dal giudice sportivo nei confronti dell’Inter. Una sanzione che, al netto dei tanti #siamotuttikalidou, non ha sortito nessun effetto significativo sul problema del razzismo nel calcio, quando in altri paesi (ogni riferimento all’Inghilterra è puramente casuale) i colpevoli sarebbero stati individuati grazie all’ausilio della tecnologia e bannati a vita dello stadio, se non peggio. In un altro paese, forse, non sarei qui a ipotizzare eventuali condizionamenti dei direttori di gara nei confronti di Koulibaly.

Piergiorgio Sgarlata